A livello mondiale si è assistito, negli ultimi anni, ad una crescita di circa l’8% annuo delle vendite di prodotti “alternativi al latte”. Nel 2017, questo segmento di prodotti ha rappresentato circa il 12% (per un valore di 15,6 miliardi di USD) delle vendite totali di latte e bevande alternative (Fonte Euromonitor). Di questi prodotti alternativi, quelli a base di soia rappresentano il 39% del totale (2017), anche se recentemente si è assistito ad un rallentamento del trend di crescita (dal 2012, +3,2% anno), rispetto ad altri prodotti che hanno registrato crescite fino al +13%/anno.
Tra le ragioni del fenomeno ci sarebbero i cambiamenti culturali, i cambiamenti nello stile di vita e il passaggio dei consumatori a bevande di derivazione vegetale. È sempre più diffusa la percezione dei consumatori che i prodotti dairy-free (alternativi) sono migliori ed hanno un impatto più benefico sulla salute. Questa convinzione appartiene, in particolare, a consumatori che appartengono alla categoria dei millenials e Generation Z. Salute, benessere e sostenibilità (incluso il tema del benessere animale e dell’impronta del carbonio dei prodotti), sono tra i fattori prioritari nelle loro scelte d’acquisto. Si tratta delle giovani generazioni, studenti e ragazzi che si informano, sono responsabili e attivi nella vita della società e di conseguenza attenti e sensibili a questi temi.
Se si considera il valore nutrizionale dei diversi prodotti, emerge chiaramente che quelli dairy-free sono meno nutrienti di quelli a base di latte vaccino (come si può vedere dalla tabella). Questi aspetti non sempre sono conosciuti da parte dei consumatori. Se si pensa alla sempre maggiore attenzione da parte dei consumatori verso gli aspetti nutrizionali e a tutte le informazioni presenti in etichetta, questo aspetto potrebbe essere un ‘importante leva di comunicazione e marketing. Inoltre, oltre al contenuto di proteine, bisogna considerare che è tornato alto il consumo di materie grasse di qualità, come il burro. I prodotti alternativi al latte hanno generalmente un contenuto molto basso in grassi e, quando presenti, sono rappresentati maggiormente dalla componente di acidi grassi saturi (non benefici per la salute).
Un altro interessante elemento da considerare, che ha portato alla crescita dei prodotti alternativi, è il fatto che in questi settori si è investito molto in ricerca e sviluppo da una parte e comunicazione e marketing dall’altra. Si sono creati prodotti innovativi che sono stati immessi sui diversi mercati con efficaci strategie di marketing: prodotti ad alto contenuto di proteine, pochi zuccheri, nuove forme di packaging, ecc. Ciò non è avvenuto per i prodotti convenzionali, che sono rimasti fermi.
Tra le strategie adottate dalle aziende ancora legate al mercato del latte tradizionale sta emergendo sempre più la diversificazione produttiva. Non si pensa a convertire la produzione da latte e derivati ai prodotti di derivazione vegetale, ma bensì a diversificarla mantenendo il latte come la materia prima fondamentale. Nascono quindi tipologie di latte “premium”, come per esempio il biologico, quello prodotto da animali nutriti solo con erba, il latte senza lattosio o l’ultra filtrato.
Questa differenziazione di prodotto è volta anche a spuntare prezzi maggiori rispetto al latte più tradizionale, in modo da poter competere con le bevande a base vegetale. La principale caratteristica di questo mercato è l’importanza per le aziende di riuscire a soddisfare ogni preferenza dei consumatori, che sono sempre più esigenti in termini di differenziazione produttiva.
In termini generali, un’azienda dovrebbe riuscire a diversificare al massimo la sua produzione e di conseguenza anche i mercati, per poter avere una migliore gestione del rischio e essere più resilienti alle variabilità di mercato. Questo risulta particolarmente importante nel caso di aziende cooperative che hanno come scopo la massimizzazione della remunerazione del latte conferito dai soci. La dinamica più perseguita per competere nel mercato risulta essere nella maggior parte dei casi l’aumento dei volumi per guadagnare efficienza e quindi portare nel mercato un prodotto che sia competitivo. In un mercato dove la sovrapproduzione avanza sempre più come un problema concreto, sia per aumento delle produzioni sia per la riduzione dei consumi, è chiaro che sarà sempre meno vantaggioso proseguire su questa strada.
È chiaro che l’espansione dell’offerta non significa soltanto catturare nuovi consumatori o fidelizzare quelli già esistenti, significa anche incrementare la complessità della catena produttiva e distributiva.
Tradizionalmente la catena di approvvigionamento era relativamente semplice e muoveva grandi volumi per poche tipologie di prodotti. Ora invece la differenziazione produttiva ha incrementato il numero di prodotti riducendo i volumi movimentati per ciascuno di questi. Questo provoca un innalzamento dei costi per le aziende che devono gestire questi cambiamenti. L’ampliamento della varietà dell’offerta e la necessità dei produttori di riempire scaffali porta le catene distributive a caricare alte tariffe per il posizionamento dei prodotti. Questo fenomeno rimarrà in atto fintanto che i consumatori dimostreranno di voler sostenere la domanda di prodotti alternativi e diversificati, pagando quindi un premium price.